«Mi piace»? Lo decide un algoritmo

28 Giu 2016 -

«Mi piace»? Lo decide un algoritmo

Quando i primi gestori di siti web cominciarono a lamentarsi con Google – appena lanciato come progetto dell’università di Stanford – perché la graduatoria del motore di ricerca non li includeva fra i risultati più in evidenza, i due giovani inventori, Larry Page e Sergey Brin, si difesero dicendo che loro non c’entravano nulla, non c’era alcun intervento umano, la scelta dipendeva esclusivamente dal lavoro del software.
Il preziosissimo territorio della prima pagina dei risultati di ricerca, cruciale per la visibilità, e quindi il business, di chi opera nel web, è amministrato da potenti algoritmi (il principale è PageRank). Per entrarci occorre capire quali sono i loro meccanismi e cercare di coglierne le esigenze. Lavoro in cui sono impegnate miriadi di società e singoli, attenti a registrare i più impercettibili cambiamenti di funzionamento e di logiche di Google e ad adeguarvisi il più velocemente possibile, per riuscire ad apparire fra i primi (tra gli addetti di Internet si dice che «il posto più sicuro dove nascondere un cadavere è la seconda pagina dei risultati di Google»). «Nessun intervento umano» per i fondatori di Google equivaleva a una piena garanzia di neutralità, imparzialità e correttezza. Così gli algoritmi hanno fatto il loro ingresso nel web di massa. Oggi sono il filtro onnipresente attraverso cui vediamo Internet. Ideati per risolvere problemi concreti, suddividendone la soluzione in diversi passaggi di un processo, gli algoritmi hanno applicazioni in tutti gli ambiti in cui l’informatica può dare un contributo. Ma è nel web che hanno trovato il loro habitat ideale. Col crescere dei contenuti e dei servizi della rete è nata la necessità di individuare strumenti che aiutassero a scovare le informazioni davvero pertinenti alle diverse necessità dei navigatori.

Continua a leggere su Avvenire.it


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

«Mi piace»? Lo decide un algoritmo

Quando i primi gestori di siti web cominciarono a lamentarsi con Google – appena lanciato come progetto dell’università di Stanford – perché la graduatoria del motore di ricerca non li includeva fra i risultati più in evidenza, i due giovani inventori, Larry Page e Sergey Brin, si difesero dicendo che loro non c’entravano nulla, non c’era alcun intervento umano, la scelta dipendeva esclusivamente dal lavoro del software.
Il preziosissimo territorio della prima pagina dei risultati di ricerca, cruciale per la visibilità, e quindi il business, di chi opera nel web, è amministrato da potenti algoritmi (il principale è PageRank). Per entrarci occorre capire quali sono i loro meccanismi e cercare di coglierne le esigenze. Lavoro in cui sono impegnate miriadi di società e singoli, attenti a registrare i più impercettibili cambiamenti di funzionamento e di logiche di Google e ad adeguarvisi il più velocemente possibile, per riuscire ad apparire fra i primi (tra gli addetti di Internet si dice che «il posto più sicuro dove nascondere un cadavere è la seconda pagina dei risultati di Google»). «Nessun intervento umano» per i fondatori di Google equivaleva a una piena garanzia di neutralità, imparzialità e correttezza. Così gli algoritmi hanno fatto il loro ingresso nel web di massa. Oggi sono il filtro onnipresente attraverso cui vediamo Internet. Ideati per risolvere problemi concreti, suddividendone la soluzione in diversi passaggi di un processo, gli algoritmi hanno applicazioni in tutti gli ambiti in cui l’informatica può dare un contributo. Ma è nel web che hanno trovato il loro habitat ideale. Col crescere dei contenuti e dei servizi della rete è nata la necessità di individuare strumenti che aiutassero a scovare le informazioni davvero pertinenti alle diverse necessità dei navigatori.

Continua a leggere su Avvenire.it


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *