Chi l’ha detto che è obbligatorio avere lo smartphone alle scuole medie?

17 Ago 2019 - Tag: ,

Chi l’ha detto che è obbligatorio avere lo smartphone alle scuole medie?

Niente telefono fino ai quattordici anni. Nessuno schermo in camera da letto. Tempi contingentati per il collegamento wi-fi. Assolutamente mai cellulari a tavola. Nessun social media prima dei tredici anni. Si snocciolano così, una dopo l’altra, fino ad arrivare a 12, le regole per il buon uso dello smartphone in casa di Chris Anderson, padre di cinque figli tra i 10 e i 21 anni, a lungo direttore del mensile Wired — bibbia dell’elite digitale americana — e fondatore di svariate aziende produttrici di droni, oltre che personaggio di spicco del movimento dei makers, produttori di tecnologie fai da te. Non esattamente un individuo ostile agli strumenti digitali, insomma. Gli ultimi due punti delle sue regole, pubblicate su medium.com, infatti concedono qualcosa: è consentito giocare a videogame violenti quando si diventa teenagers e in casa si può smanettare con un sacco di roba interessante perché papà è un nerd.

Anderson è soltanto uno dei molti nerd, che negli Stati Uniti stanno mettendo seriamente in discussione l’utilizzo ormai spesso fuori controllo delle tecnologie digitali, non soltanto da parte dei ragazzi. Gente che ha lavorato per anni nelle aziende a più alto tasso tecnologico del pianeta che adesso punta il dito contro i dispositivi digitali e applica norme estremamente restrittive con i propri figli. Uno dei primi era stato proprio Steve Jobs, che all’indomani del lancio dell’iPad, in una celebre intervista al New York Times, aveva candidamente dichiarato di essere molto severo in famiglia sulle regole d’uso di quel nuovo strumento e in generale di tutte le tecnologie.

Ma come la mettiamo al di qua dell’Atlantico dove i nerd sono meno numerosi e soprattutto non così inclini a fare autocritica? Da noi chi osa obiettare anche in modo sfumato sull’uso improprio delle tecnologie o sui meccanismi perversi che incatenano la nostra attenzione e tendono a creare dipendenza, viene facilmente etichettato come un luddista nostalgico, qualcuno che si oppone all’inevitabile progresso che vedrà la nostra vita sempre più intrecciata con la tecnologia. E certamente lo sarà. Ma proprio per questo è indispensabile recuperare un po’ di sano senso critico per correggere la rotta e far sì che questa convivenza sia il più possibile positiva. Il primo passo è riprendere noi in mano il controllo di questi strumenti e servizi. Per farlo potrebbe essere necessaria, almeno all’inizio, qualche scelta piuttosto drastica.

Come cambia il nostro comportamento. E’ quel che consiglia ad esempio Jaron Lanier, artista, programmatore, inventore negli anni 80 dei primi sistemi di realtà virtuale (fu proprio lui a chiamarla così) nel suo ultimo libro dal titolo eloquente: “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” (il Saggiatore, 2018). Lanier, già autore in passato di vari pamphlet piuttosto critici verso la tecnologia — uno dei più noti è “Tu non sei un gadget ” (Mondadori, 2010) non ce l’ha tanto con i servizi in sé, quanto con il modello di business estremamente redditizio che li sostiene e che si basa sulla gestione della nostra attenzione, braccata in modo implacabile da pubblicità sempre più pervasive e tagliate sulle caratteristiche specifiche di ogni persona. Il problema — spiega Lanier — è che non si tratta più soltanto di vendere prodotti. La posta in gioco è molto più alta: lasciati a loro stessi, i servizi più usati finiscono per alterare il nostro comportamento in modo impercettibile, ma deciso e profondo. In fin dei conti non c’è molta differenza tra indurci a un acquisto o a votare un certo candidato politico. E’ tutto sullo stesso piano per quelli che il padre della realtà virtuale, attualmente ricercatore alla Microsoft, chiama “Imperi della modificazione comportamentale di massa”. La differenza rispetto allo scenario dei media analogici sta nel fatto che lì non eri monitorato e valutato ogni secondo in modo da ricevere stimoli “personalizzati e costantemente ricalibrati. Ciò che una volta si poteva chiamare pubblicità deve ora essere inteso come una continua modificazione comportamentale su vastissima scala”.

Lanier cita le teorie degli psicologi comportamentisti per spiegare come agiscono i sottili condizionamenti cui siamo sottoposti. Con un’abile scelta delle notizie e degli aggiornamenti che ci vengono proposti, è possibile suscitare in noi specifiche emozioni. La ricerca di approvazione, espressa in numeri di seguaci e di like sui social media, può influire profondamente su quello che diciamo e condividiamo, con la potenzialità di alterare persino il nostro carattere spingendoci ad agire in un modo che ci renda più “popolari” presso il pubblico dei nostri follower.

Per capire come tutto questo sia possibile occorre prendere atto di una realtà, che forse non ci piace, ma che è resa quanto mai chiara proprio dal rapporto con le tecnologie. “Non esiste la totale libertà di scelta — scrive Lanier -. Non bisogna credere al mito che esistano persone perfette e totalmente immuni dalle dipendenze”. E’questa la lezione più importante del libro. Una lezione che Chris Anderson dimostra di conoscere molto bene.

originariamente pubblicato su medium.com

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Chi l’ha detto che è obbligatorio avere lo smartphone alle scuole medie?

Niente telefono fino ai quattordici anni. Nessuno schermo in camera da letto. Tempi contingentati per il collegamento wi-fi. Assolutamente mai cellulari a tavola. Nessun social media prima dei tredici anni. Si snocciolano così, una dopo l’altra, fino ad arrivare a 12, le regole per il buon uso dello smartphone in casa di Chris Anderson, padre di cinque figli tra i 10 e i 21 anni, a lungo direttore del mensile Wired — bibbia dell’elite digitale americana — e fondatore di svariate aziende produttrici di droni, oltre che personaggio di spicco del movimento dei makers, produttori di tecnologie fai da te. Non esattamente un individuo ostile agli strumenti digitali, insomma. Gli ultimi due punti delle sue regole, pubblicate su medium.com, infatti concedono qualcosa: è consentito giocare a videogame violenti quando si diventa teenagers e in casa si può smanettare con un sacco di roba interessante perché papà è un nerd.

Anderson è soltanto uno dei molti nerd, che negli Stati Uniti stanno mettendo seriamente in discussione l’utilizzo ormai spesso fuori controllo delle tecnologie digitali, non soltanto da parte dei ragazzi. Gente che ha lavorato per anni nelle aziende a più alto tasso tecnologico del pianeta che adesso punta il dito contro i dispositivi digitali e applica norme estremamente restrittive con i propri figli. Uno dei primi era stato proprio Steve Jobs, che all’indomani del lancio dell’iPad, in una celebre intervista al New York Times, aveva candidamente dichiarato di essere molto severo in famiglia sulle regole d’uso di quel nuovo strumento e in generale di tutte le tecnologie.

Ma come la mettiamo al di qua dell’Atlantico dove i nerd sono meno numerosi e soprattutto non così inclini a fare autocritica? Da noi chi osa obiettare anche in modo sfumato sull’uso improprio delle tecnologie o sui meccanismi perversi che incatenano la nostra attenzione e tendono a creare dipendenza, viene facilmente etichettato come un luddista nostalgico, qualcuno che si oppone all’inevitabile progresso che vedrà la nostra vita sempre più intrecciata con la tecnologia. E certamente lo sarà. Ma proprio per questo è indispensabile recuperare un po’ di sano senso critico per correggere la rotta e far sì che questa convivenza sia il più possibile positiva. Il primo passo è riprendere noi in mano il controllo di questi strumenti e servizi. Per farlo potrebbe essere necessaria, almeno all’inizio, qualche scelta piuttosto drastica.

Come cambia il nostro comportamento. E’ quel che consiglia ad esempio Jaron Lanier, artista, programmatore, inventore negli anni 80 dei primi sistemi di realtà virtuale (fu proprio lui a chiamarla così) nel suo ultimo libro dal titolo eloquente: “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” (il Saggiatore, 2018). Lanier, già autore in passato di vari pamphlet piuttosto critici verso la tecnologia — uno dei più noti è “Tu non sei un gadget ” (Mondadori, 2010) non ce l’ha tanto con i servizi in sé, quanto con il modello di business estremamente redditizio che li sostiene e che si basa sulla gestione della nostra attenzione, braccata in modo implacabile da pubblicità sempre più pervasive e tagliate sulle caratteristiche specifiche di ogni persona. Il problema — spiega Lanier — è che non si tratta più soltanto di vendere prodotti. La posta in gioco è molto più alta: lasciati a loro stessi, i servizi più usati finiscono per alterare il nostro comportamento in modo impercettibile, ma deciso e profondo. In fin dei conti non c’è molta differenza tra indurci a un acquisto o a votare un certo candidato politico. E’ tutto sullo stesso piano per quelli che il padre della realtà virtuale, attualmente ricercatore alla Microsoft, chiama “Imperi della modificazione comportamentale di massa”. La differenza rispetto allo scenario dei media analogici sta nel fatto che lì non eri monitorato e valutato ogni secondo in modo da ricevere stimoli “personalizzati e costantemente ricalibrati. Ciò che una volta si poteva chiamare pubblicità deve ora essere inteso come una continua modificazione comportamentale su vastissima scala”.

Lanier cita le teorie degli psicologi comportamentisti per spiegare come agiscono i sottili condizionamenti cui siamo sottoposti. Con un’abile scelta delle notizie e degli aggiornamenti che ci vengono proposti, è possibile suscitare in noi specifiche emozioni. La ricerca di approvazione, espressa in numeri di seguaci e di like sui social media, può influire profondamente su quello che diciamo e condividiamo, con la potenzialità di alterare persino il nostro carattere spingendoci ad agire in un modo che ci renda più “popolari” presso il pubblico dei nostri follower.

Per capire come tutto questo sia possibile occorre prendere atto di una realtà, che forse non ci piace, ma che è resa quanto mai chiara proprio dal rapporto con le tecnologie. “Non esiste la totale libertà di scelta — scrive Lanier -. Non bisogna credere al mito che esistano persone perfette e totalmente immuni dalle dipendenze”. E’questa la lezione più importante del libro. Una lezione che Chris Anderson dimostra di conoscere molto bene.

originariamente pubblicato su medium.com

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