
Conversare con qualcuno che sembra capirti meglio di chiunque altro, che ti rassicura, ti dà ragione, è sempre disponibile per te, non avendo altri impegni che lo distolgono dalla relazione con te. È l’esperienza di avere a che fare con un chatbot, un programma d’intelligenza artificiale addestrato per conversare con gli utenti, dando loro risposte, ma anche proponendo domande che invitano ad approfondire la relazione. Al centro di un celebre film del 2013 – Her, di Spike Jonze, in cui il protagonista si trovava coinvolto in una relazione con un chatbot “al femminile” che arrivava a occupare il posto di un rapporto con una donna reale – oggi questa situazione non appartiene più alla fantascienza distopica. I chatbot sono ormai diffusi e ampiamente utilizzati, a partire da ChatGpt fino ai più recenti sistemi analoghi presentati da Google, Meta e giganti dell’informatica: nelle aule scolastiche vengono utilizzati (di nascosto) per scrivere temi o rispondere a interrogazioni, e a casa svolgono ormai normalmente buona parte dei compiti assegnati dai professori a scuola.
Ma sta emergendo un uso diverso, più insidioso, in cui sono in gioco gli aspetti affettivi e che proprio per questo va considerato con grande attenzione soprattutto nelle fasce più basse di età. Gli AI Companion, ovvero i chatbot con una loro identità, che può ad esempio simulare quella di un personaggio di un film, libro o serie tv, si propongono come fidati confidenti virtuali – sorta di riedizione high tech dell’amico immaginario – disponibili in ogni momento a rispondere a domande e a offrire conforto.